L’Occidente ha sempre dettato le regole dei giochi, sin dalle origini, e questa è stata una condizione alla quale si è sempre dati seguito: ma siamo proprio sicuri che sia questa la lettura corretta?
Quante volte abbiamo sentito dire che le civiltà “altre” hanno cercato, nel corso del tempo, di avvicinarsi e di occidentalizzarsi nella speranza di diventare parte di quel fenomeno culturale che faceva corrispondere all’idea di paesi continentali quel presupposto di correttezza, come a dire che eguagliare la cultura europea avrebbe in qualche modo legittimato maggiormente un Paese agli occhi della sfera internazionale?
Negli ultimi tempi, però, le vicende mondiali stanno iniziando a cambiare percorso, anche e soprattutto grazie ad una coscienza risvegliata nelle nuove generazioni che, probabilmente, proprio a seguito di un’educazione troppo orientata all’Occidente, ora si stanno facendo promotori di nuovi ideali, di un nuovo Ius internazionale, un nuovo rispetto verso quella che è la diversità e la riscoperta delle differenze culturali con l’obiettivo di creare un mondo più a dimensione pluralistica e in questo, grazie (o a causa di) alla pandemia Covid-19, queste nuove istanze si sono rese più palesi, manifestandosi purtroppo in forme di violenza nei confronti della popolazione asiatica, un odio che non è rimasto impunito ma che ha comunque mietuto vittime.
Ma in questo scenario così apocalittico c’è ancora uno spazio per la speranza che, anche nel peggiore dei momenti, sta cercando di farsi largo e dare un nuovo volto a questo XXI secolo, infatti oltre al grande ruolo che, ormai da anni, ricopre la Cina nel panorama economico internazionale, diventando a tutti gli effetti la rivale per eccellenza all’industria americana, o lo stesso Giappone che, negli ultimi anni, sta tentando con grande forza di elevarsi in favore di una maggiore indipendenza del Paese (che, ricordiamo, essere ai ferri corti con la Cina che reclama sempre più potere in vigore di un accordo stipulato tra Cina e Regno Unito nel momento in cui si è concluso il periodo di dominazione anglosassone sul paese nipponico), c’è un paese che, oltre alla spinta economica e politica, si sta imponendo sempre di più nel contesto globale, diventando la vera capolista dell’industria dell’intrattenimento.
Ovviamente facciamo riferimento alla Corea del Sud che, a differenza della vicina Corea del Nord, sta sfruttando l’ondata occidentale a proprio favore, cogliendo i riferimenti culturali d’oltre oceano ma rimaneggiandoli con i propri strumenti, imponendo una nuova visione dell’industria musicale e cinematografica che sta portando sempre più persone a volgersi verso l’Oriente, riscoprendone la cultura e i modi: fenomeni come il K-pop, le cui origini si radicano nella seconda metà dell’800 ma sarà soltanto a partire dagli anni ’90 del XX secolo che si avrà il vero exploit di questo genere musicale consistente in basi pop accompagnati da testi in lingua coreana, e i K-drama, serial televisivi che prendono spunto dai dorama giapponesi, si stanno costruendo una fan-base sempre più ampia anche in quei paesi dove la lingua coreana non è affatto “di casa”, smontando quel preconcetto culturale per il quale è possibile godere solo di ciò che si può capire a fondo.
La vera domanda è: come hanno fatto a sorpassare il limite linguistico?
La domanda, apparentemente semplice, in un contesto globalizzato come il nostro, è in realtà il fulcro dell’intera vicenda perché sta portando sempre di più una rivoluzione culturale, specie in Occidente, specie in un mondo nel quale si è sempre ritenuto che l’unico mezzo di comunicazione univoco fosse la lingua inglese, dimostrando invece che ancora oggi, nell’era della tecnologia e del progresso, la musica e l’arte possono essere mezzo di comunicazione e unione principale, riscoprendo quella funzione sociale della musica che, almeno nei paesi più occidentali, si è persa negli ultimi anni, in favore di una cultura artistica più incentrata sul denaro e sulla vendita facile: a dimostrazione di ciò basta analizzare l’attenzione delle agenzie e etichette discografiche nei confronti delle coreografie, degli outfit, del merchandising e soprattutto dei video musicali, un’usanza ormai quasi del tutto scomparsa negli artisti del Continente che, per stare dietro ai ritmi incessanti e frenetici della musica digitale, hanno preferito sacrificare il contenuto visual.
A riprova del fatto che la scena musicale coreana è particolarmente apprezzata anche oltre Oceano, possiamo citare giusto qualche collaborazione, come la canzone “Boy with Luv” dei BTS, boyband coreana composta da 7 membri formatasi a Seoul nel 2013 sotto la costante attenzione della Big Hit Entertainment (ora HYBE), con la cantante americana Halsey, la canzone “Ice cream” delle BLACKPINK, band femminile coreana composta da 4 membri formatasi a Seoul nel 2016 dalla YG Entertainment, con la cantante americana Selena Gomez e questi due gruppi, citati solamente a puro titolo esemplificativo, vantano una fan-base a livello mondiale, non soltanto tra normali fan ma anche grandi artisti internazionali che ne esaltano le qualità e doti: gli stessi BTS, per fama e frenesia sociale generata, sono stati paragonati ai Beatles e ai Monkees e il loro successo è diventato oggetto di studi accademici.
Oppure ancora basta pensare alle innovazioni nella cinematografia apportate dai registi e scenografi coreani, pensiamo al “caso Parasite”, vincitore di 4 Oscar e una Palma d’oro, una vera e propria rivoluzione, soprattutto se riflettiamo sulla lentezza del film accompagnata, però, dall’attenzione ai minimi dettagli, che hanno trasformato questo film in un vero e proprio caso di studio e che, inevitabilmente, comporterà dei cambiamenti anche nella stessa cinematografia internazionale perché ha dimostrato che il grande pubblico è più attento alle minuzie e, al tempo stesso, allo sguardo complessivo dell’opera in sé, confermando, di nuovo, che non è necessario dover comprendere tutto al 100% per poterlo apprezzare davvero.
Gli stessi K-Drama stanno scalando non poi così lentamente le classifiche internazionali, propugnando una nuova visione della serie tv, un prodotto che non è soltanto intrattenimento ma anche e soprattutto
insegnamento morale, ad esempio il drama “It’s okay to not be okay” (사이코지만 괜찮아) si pone come capolista nell’affrontare quelli che sono i traumi e la malattia mentale, insegnando allo spettatore la necessità
di accettarsi ma anche l’importanza di fare affidamento sugli altri, non come ancora di salvataggio, ma come supporto per i momenti più bui o, ancora, il drama “Itaewon class” (이태원 클라쓰) basato sul webtoon omonimo insegna l’importanza dell’amicizia ma anche della resilienza agli eventi difficili della nostra vita.
Finalmente il panorama cinematografico internazionale sta iniziando ad apprezzare attori non “canonici” e questo è dimostrato dalla recentissima notizia sulla partecipazione dell’attore Park Seo-Joon (Itaewon class, Hwarang, What’s wrong with Secretary Kim, Fight for my way) al prossimo film Marvel “Captain Marvel” a fianco dell’attrice statunitense Brie Larson: notizia confermata o meno, la portata di questa novità è comunque eclatante perché mostra il primo grande passo verso un mondo dello spettacolo sempre più multiculturale e aperto alla diversità.
In conclusione, che la strada da percorrere sia ancora lunga è un dato certo, sono ancora tanti i pregiudizi e le tematiche che meritano di essere affrontate per poter realmente parlare di una vera e propria rivoluzione in senso totalizzante ma le nuove generazioni sono sicuramente qualche passo avanti rispetto ai loro predecessori, scardinando passo dopo passo ogni tassello di quella cultura colonizzante che sminuiva l’Oriente davanti all’imponenza dell’Occidente: che sia la volta buona che l’Occidente inizi a decolonizzare i propri standards e ad approcciarsi con occhio diverso verso l’altro?
Ai posteri l’ardua sentenza.
A cura di Bianca Cannarella